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Quando la persona non vuole essere aiutata

Riduzione del dannoUno specifico problema di molti familiari di accumulatori, è questo: “Se la persona non desidera essere aiutata come si può fare per non lasciarla semplicemente ad un destino di abbandono e squallore?”. Come è noto la richiesta di trattamento in prima persona da parte dei pazienti che accumulano è molto bassa, (nell’ordine del 20-25%) così come la disponibilità al trattamento. Si verifica quindi spesso una situazione per la quale i familiari, afflitti ed esasperati dalla situazione richiedono una qualche forma d’intervento che sembra andare contro la volontà della persona che vorrebbero aiutare. Anche se è vero che la terapia Cognitivo Comportamentale specificamente adattata alla disposofobia  è oggi il trattamento di elezione non è possibile “portare in terapia” una persona che non lo desidera.

Uno degli approcci per affrontare questo tipo di situazioni è stato quello di mutuare modelli “pragmatici” dagli approcci per il trattamento delle dipendenze e portarli nel dominio della disposofobia. In effetti i problemi sebbene molto diversi hanno alcuni punti nodali in comune. In entrambe le situazioni abbiamo una condotta comportamentale sostanzialmente “autodistruttiva” della quale la persona sembra non potere o volere cogliere la gravità, le conseguenze e la portata a lungo termine, negando anzi il problema. E’ evidente che questo determina nei familiari dei cicli di intervento nei quali da un lato si vorrebbe “fare qualcosa” e dall’altro non ci si riesce. La persona sembra “cieca” al problema alimentando frustrazione, rabbia, minacce, disperazione e nuovi tentativi di intervento. Tali cicli finiscono per determinare una frattura relazionale proprio con chi si vorrebbe aiutare, peggiorando sostanzialmente le cose.

Seguendo questa analogia con le dipendenze si è iniziato ad introdurre strategie di intervento quali la “Riduzione del Danno” (approccio  originariamente nato per limitare il propagarsi di malattie infettive tra i consumatori di sostanze per via endovenosa). Per dare un’idea del carattere “pragmatico” di queste strategie consideriamo che la “Riduzione del Danno” potrebbe essere riassunta circa così: “Se non vuoi affrontare alcun tipo di trattamento va bene, ma almeno lascia che ti aiuti il minimo indispensabile a non farti troppo male”.

Tali strategie seppur di portata più limitata rispetto ad una terapia Cognitivo Comportamentale per la disposofobia da un lato consentono ai familiari di iniziare a “fare qualcosa” e dall’altro di mettere in sicurezza la persona (dal punto di vista igienico, sanitario, ed abitativo) aprendo a volte la via ad interventi più profondi e sostanziali di tipo autenticamente terapeutico. Una strategia di “Riduzione del Danno” può quindi essere la scelta di elezione nel caso in cui il paziente rifiuti qualsiasi forma di aiuto o abbia una consapevolezza sul problema limitata o assente. In questi casi spostare il focus dal “risolvere il  problema della roba e dell’accumulo una volta per tutte” ad una prospettiva più limitata ma accettabile per la persona di semplice collaborazione per la soluzione dei pericoli immediati può allentare le “resistenze” ad avvalersi di un aiuto specialistico in futuro.

Come è evidente questo approccio si basa sul fatto che un minimo di rapporto sia rimasto tra i familiari e chi accumula o che almeno ci sia il margine per ricuperarlo, e che i livelli di rabbia e di vergogna non siano troppo alti. La famiglia va in ogni caso aiutata ad implementare un piano che per gli aspetti di importante coinvolgimento emotivo (e pratico) non riuscirebbe a portare avanti da sola.

La “Riduzione del Danno” prevede delle fasi , degli strumenti e delle specifiche tecniche che ne massimizzano la probabilità di successo. Le fasi sono solitamente queste:

  1. Coinvolgimento della persona che accumula nell’approccio di riduzione del danno. Essendo un intervento a basso impatto, rispetto ad una terapia, spesso chi accumula può essere coinvolto con maggior facilità. La fase di coinvolgimento in genere ha la forma di intervista motivazionale (anche questa derivata dalle dipendenze) con l’accumulatore, con alcuni familiari, o con specifiche combinazioni a seconda del caso. Spesso la semplice partecipazione all’intervista da parte dei familiari apre a nuove consapevolezze sui processi mentali ed i limiti del familiare che consente di ridefinire il problema da aspetto caratteriale a sindrome clinica.
  2. Costruzione del Team. Il terapeuta valuta le risorse e le opportunità per creare un team stabile di “Riduzione del Danno”. In genere fanno parte del team i familiari, altre persone vicine (amici, vicini, etc.) ed in alcuni casi altri soggetti (servizi, agenzie territoriali, volontari, etc.)
  3. Valutazione delle potenziali fonti di danno. Si procede a valutare quali siano gli aspetti potenzialmente generatori di “danno”. Ad esempio: Vi sono infestazioni di parassiti? Vi sono dei fili elettrici scoperti? La persona ha un posto accessibile dove tiene i medicinali che deve prendere giornalmente? In caso di malore la porta si apre abbastanza da far entrare una barella? Il telefono funziona per chiedere aiuto? La persona può cucinare? La persona può lavarsi? Etc.
  4. Creazione del piano di riduzione del danno. A questo punto creato il coinvolgimento, creato il team e fatta la valutazione viene concordato un piano che consenta di eliminare i fattori di rischio immediato attraverso riorganizzazioni minime degli ambienti (in genere bagno, letto e cucina) e soprattutto di mantenere lo status di sicurezza raggiunto (attraverso visite periodiche dei familiari, manutenzione periodica di alcune parti della casa, etc.). Tale piano viene simbolicamente siglato da un contratto tra tutte le parti.
  5. Implementazione del piano di riduzione del danno. La persona non risolverà il comportamento di accumulo ma il piano di riduzione del danno (che nello specifico si può sostanziare in una serie di routine per tutto il team) gli consentirà di continuare a farlo in relativa sicurezza monitorando al contempo l’evolvere della situazione.

Come accennato all’inizio, l’approccio è molto “pragmatico”, tuttavia, il problema specifico di difficoltà di coinvolgimento in un piano terapeutico per gli accumulatori è reale e questa strategia rappresenta  una buona opzione per consentire da un lato una soluzione immediata ai problemi di sicurezza, dall’altro ai familiari di “fare qualcosa”. Non parliamo in questo caso di lavoro autenticamente terapeutico, lo specialista diviene piuttosto un consulente di un team di lavoro (del quale fa parte anche l’accumulatore) caratterizzato da complesse dinamiche relazionali e lo indirizza in una direzione che porta a determinare come risultato finale un aumento dei gradi di libertà in cui la famiglia e la persona si muovono. Questo primo passo, con il tempo e il ricucirsi dei rapporti grazie a questa nuova dimensione basata sull’instaurarsi un sistema cooperativo, potrà favorire un’apertura che permetta di affrontare il problema in modo più profondo e risolutivo in un setting terapeutico.

Articolo Originale: “Hoarding Disorder e Riduzione del Danno” su Psicoterapie.pro

Quali differenze tra comportamento di accumulo dovuto a Disposofobia rispetto a quello dovuto a Disturbo Ossessivo Compulsivo?

Il comportamento di accumulo è stato tradizionalmente considerato espressione di una particolare manifestazione di Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC). Da questa assimilazione è derivata l’etichetta “accumulo compulsivo”,  in parte fuorviante alla quale viene ancora comunemente ridotta qualsiasi manifestazione di accumulo. In realtà sia nella versione IV-TR del “Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali” (DSM) che nell’attuale versione della classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati, proposta dall’OMS (ICD-10), l’ accumulo non compare tra i criteri diagnostici del DOC, l’unica menzione attinente all’accumulo compare invece tra i criteri per la diagnosi del Disturbo Ossessivo Compulsivo di Personalità (disturbo di asse II a dispetto del nome completamente diverso dal DOC) peraltro essendo totalmente assente nel disturbo anacastico di personalità equivalente di quest’ultimo nell’ICD-10. Questa assenza tra i criteri diagnostici del DOC non stupisce considerando che in realtà negli studi sul disturbo solo il 5% dei soggetti presenta come sintomo importante e primario il comportamento di accumulo. Un evenienza quindi piuttosto rara. La disposofobia (HD) che invece attribuisce al comportamento di accumulo il ruolo di suo principale indicatore, unitamente agli effetti che tale accumulo produce, compare a partire dal 2013 nel DSM-V e rappresenta la matrice causale alla quale è riconducibile la maggior parte dei casi di accumulo.

La tradizionale assimilazione del comportamento di accumulo ad una forma di Disturbo Ossessivo Compulsivo è tuttavia un dato di fatto e va ricondotta essenzialmente a due fattori: da un lato all’identificazione di un fattore discreto di “accumulo” nella cluster analysis statistica su campioni di pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo e dall’altro alle apparenti similarità fenomenologiche tra Disturbo Ossessivo Compulsivo e Disposofobia. Gli evitamenti e le difficoltà ad eliminare cose non oggettivamente necessarie motivate dalla paura di privarsi di qualcosa di affettivamente importante, utile o bello tipiche degli accumulatori sono infatti state in passato interpretate come “ossessioni” mentre la necessità di conservare tali cose, come “compulsioni”. In realtà la fenomenologia apparentemente simile è sostanzialmente diversa e, grazie al famoso articolo di Frost & Hartl del 1996 nel quale per la prima volta è stata data una definizione operativa del disturbo,  ha potuto essere indagata in modo più approfondito. Dal 2007 gli studi sul tema sono cresciuti esponenzialmente facendo emergere appunto le importanti differenze tra manifestazioni del Disturbo Ossessivo Compulsivo e della Disposofobia (fig.1) che hanno portato nel DSM-V alla separazione dei due disturbi rendendo quest’ultima di fatto un disturbo a sé stante con propri criteri diagnostici.

Differenze tra DOC e Disposofobia

Anche se è oggi chiaro che gli accumulatori non sono quasi mai diagnosticabili con un Disturbo Ossessivo Compulsivo esiste tuttavia una piccola percentuale di casi stimata in circa il 10% (una buona descrizione sono i 10 casi clinici analizzati e documentati da Pertusa, Frost and Mataix-Cols nel 2010) nei quali l’accumulo è secondario e dipendente da tipiche ossessioni del DOC. In questi rari casi l’accumulo da sollievo rispetto al dubbio ossessivo (come nel checking), previene il pericolo di un ossessione aggressiva o di contaminazione (come nel washing) da sollievo rispetto a sensazioni di incompletezza o imperfezione (come nelle compulsioni di simmetria). Le differenze tra accumulo collocabile in un quadro di Disturbo Ossessivo Compulsivo ed uno tipico della Disposofobia sono notevoli e sono riassunte nella fig.2 adattata da quella pubblicata da Pertusa e Fonseca nel Manuale della Oxford (2014) sull’Hoarding.

Accumulo nel DOC e nella Disposofobia

Va notato che la categoria di pazienti con accumulo da Disturbo Ossessivo Compulsivo, pur essendo percentualmente ridotta, proprio per il carattere ego-distonico del disturbo è sovra rappresentato negli studi di psicoterapia rispetto a quelli per Disposofobia che pur essendo in realtà molto più numerosi, quasi mai richiedono un aiuto per il proprio problema (<25%).

In conclusione anche in questo caso, come già evidenziato nel post precedente, emerge la necessità di avere sempre un’accurata diagnosi differenziale tra la possibile matrice DOC e quella Disposofobica del comportamento di accumulo al fine di identificare la linea di trattamento specifica per il caso in oggetto che sarà molto differente a seconda della diagnosi.

Articolo Originale: “Diagnosi differenziale tra Hoarding Disorder (HD) e Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC)” su Psicoterapie.pro

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